- Restauro Doppelstutzen
- Articolo di Roberto Lanzone
Il restauro di un’arma antica militare a pietra focaia
Qualche nota sul restauro di un raro fucile austriaco Doppelstutzen modello 1795, arma di pregio ma che appariva in condizioni critiche, ci fa capire che non tutte le vecchie armi rugginose sono da buttare via. A volte, sotto la patina rossastra si nasconde un gioiello che merita le dovute cure.
Qualche nota sul restauro di un raro fucile austriaco Doppelstutzen modello 1795, arma di pregio ma che appariva in condizioni critiche, ci fa capire che non tutte le vecchie armi rugginose sono da buttare via. A volte, sotto la patina rossastra si nasconde un gioiello che merita le dovute cure.
A ogni cultore di armi antiche, che come ogni vero appassionato è sempre a caccia di nuove “prede”, può succedere di trovare in vendita quel “pezzo” che magari cercava da anni, ma talmente coperto di ruggine da indurlo a rinunciare all’acquisto. Può essere un errore: mai lasciarsi ingannare dalle apparenze. Un’attenta analisi (o il consiglio di un amico davvero esperto) ci dirà se quell’arma è ormai ridotta a un rottame inservibile oppure se, dopo un accurato restauro, potrà riprendere un bell’aspetto, e magari tornare a funzionare come quando era nuova, o quasi.
Impietoso nei confronti di tutte le creature viventi, il tempo a volte passa distratto sugli oggetti inanimati: ci sono armi che hanno duecento o trecento anni e che sembra siano state fatte ieri. Tutto dipende da come sono state conservate. In certi ambienti freddi e asciutti, tarli, ossidazioni e muffe non trovano le condizioni per vivere e svilupparsi. Questo spiega perché nei saloni di alcuni castelli si vedono pistole appese ai muri che non hanno una macchia di ruggine; mentre nelle nostre confortevoli case, complici l’umidità, gli sbalzi di temperatura, il riscaldamento e la formazione di condensa, le armi vanno di tanto in tanto oliate se si vogliono evitare brutte sorprese.
In queste note parleremo del restauro che abbiamo fatto personalmente su un fucile che, a prima vista, sembrava da buttare via, o quasi. Si tratta di un’arma rarissima: il Doppelstutzen M 1795, fucile a due canne sovrapposte (di cui quella superiore rigata e la sottostante liscia) in dotazione ai tiratori scelti delle guardie confinarie dell’impero Austroungarico; in pratica è l’evoluzione del modello 1768. Le differenze sono essenzialmente funzionali, il modello più giovane (si fa per dire) ha praticamente le stesse dimensioni e il medesimo calibro di 14,8 mm, ma è un po’ meno pesante (5,38 kg invece di 5,5), cosa ottenuta rendendo meno massicce le piastre e “smagrendo” un po’ il legno, riducendo l’altezza della pala del calcio. Ma quello che fa distinguere fin dal primo sguardo i due modelli sono i cani, che nel M 1795 sono “a cuore” e non più “ a collo di cigno”, sicuramente meno eleganti ma più robusti. Così com’è più funzionale il bacinetto che accoglie la polvere dell’innesco, fatto in ottone invece che in ferro, per renderlo insensibile alla ruggine causata dai residui della combustione della polvere da sparo.
L’apparenza inganna
Un’arma di tale valore e rarità non deve mai essere trascurata, anche se ci viene offerta in pessime condizioni di conservazione. Certo, nessuno è disposto a pagare la ruggine 2000 euro al chilo, ma che cosa c’è realmente sotto la patina rossastra? È quello che si deve cercare di intuire al primo esame, non dimenticando che le brutte sorprese sono sempre in agguato e le scopriremo tutte solo quando, nel nostro piccolo laboratorio, avremo la possibilità di smontare completamente l’arma. Questo per dire che un certo margine di rischio è sempre presente quando si acquista un’arma antica “in patina”, dimenticata per secoli in qualche solaio o infilata dal trisnonno sotto la paglia di un fienile abbandonato: è proprio lì che i contadini nascondevano le armi che raccoglievano nei campi dopo che si era svolta una battaglia.
Torniamo al nostro Doppelstutzen. Dopo aver controllato che tutti gli elementi facilmente amovibili siano corretti e coevi (mirino, alzo, cani, ponticello, grilletti, calciolo ed eventuale bacchetta); l’analisi comincia dalle parti in ferro. Nel nostro caso, come si vede dalle foto, la patina di ossidazione appare uniforme, sia come spessore sia come colore; il fatto è positivo; macchie o placche più scure, tendenti al nero, significano che in quei punti la ruggine ha scavato in profondità, quindi quando puliremo la superficie finiremo con avere il metallo “a pelle di leopardo”: un effetto esteticamente pessimo, senza contare che i probabili e profondi “crateri” causati dall’ossidazione, che oltre tutto riducono la robustezza del metallo, sconsigliando in molti casi l’eventuale utilizzo a fuoco.
Infatti il restauro può essere di due tipi: semplicemente conservativo oppure anche funzionale. Se l’arma è destinata solo a finire in bacheca per arricchire una collezione, potremo accettare anche i difetti che ne penalizzano la solidità; ma se abbiamo intenzione di utilizzarla a caccia o in poligono, tutte le parti devono essere sostanzialmente “sane”, comprese quelle in legno, perché non bisogna dimenticare che i malefici tarli sono ghiotti del noce ben stagionato, e sotto i forellini che spesso punteggiano la calciatura non è raro che si celino lunghe e profonde gallerie che rendono la struttura lignea estremamente fragile, destinata ad andare in pezzi sotto gli urti del rinculo. Ma anche a questo, spesso, c’è rimedio.
Dopo aver analizzato l’esterno delle canne si passa all’interno. Esistono in commercio piccole pile fatte apposta per essere introdotte nelle anime. Avremo così la possibilità di osservare, seppure in modo approssimativo, lo stato della rigatura e la più o meno accentuata regolarità delle superfici delle canne lisce. In questa analisi è fondamentale avere una bacchetta da introdurre nelle canne; ci serve per controllare di quanto affonda. Se non riusciamo a introdurla per tutta la lunghezza della canna (basta fare un raffronto con l’esterno) significa che l’anima è otturata da qualcosa (spesso uno straccio) oppure che l’arma è ancora carica, e magari lo è da cent’anni, eventualità tutt’altro che infrequente perché un tempo c’era l’abitudine di tenere le armi ad avancarica pronte al fuoco, visto il tempo relativamente lungo necessario per caricarle. In questo caso, dato che la polvere nera è molto igroscopica, c’è la quasi certezza che l’umidità abbia causato profondi “crateri” nella camera di scoppio, pregiudicando in modo più o meno grave la robustezza dell’arma, e proprio nel punto dove al momento dello scoppio la pressione dei gas è massima.
Dopo le canne si passa alle piastre. I meccanismi, anche se con fatica, devono funzionare: scatti del cane (monta e sicura), grilletti, molla della martellina. Le eventuali scritte e i marchi, pur sotto la ruggine, devono apparire decisi se sono fatti a bulino, mentre se ottenuti per punzonatura il metallo deve “crescere” leggermente attorno ai segni; in caso contrario, e soprattutto se i marchi non sono completamente leggibili, vuol dire che le superfici sono già state “tirate”, è un chiaro segno che, magari cent’anni fa, il fucile è già stato rimesso a nuovo, ma in modo maldestro, usando forti abrasivi, se non addirittura lime e mole.
Infine il legno. Controlliamo con cura che non ne manchino parti e, soprattutto che non ci siano gravi rotture (come quella, “classica”, nel collo del calcio, che divide l’arma in due pezzi), magari riparate da vecchia data usando colla di pesce, viti e spine di legno o di ferro, poi camuffate in qualche modo con vernici. Eventuali fessurazioni non sono gravi se non manca materiale, così come i fori lasciati dai tarli, a meno che la calciatura sia veramente ridotta un “colabrodo“
Le parti in ottone non devono preoccupare, anche se sono molto scure, basta che non siano gravemente danneggiate. Come succede per tutti i metalli dolci, la patina di ossido che si forma in superficie protegge il materiale sottostante; basterà una buona lucidatura per farlo tornare come nuovo. Il vero cancro delle armi è l’ossido di ferro (ossia la ruggine) che aggredisce tutti i materiali acciaiosi: alimentato dall’ossigeno che c’è nell’aria continua a svilupparsi finché il metallo non è completamente distrutto, trasformato in polvere rossastra.
I materiali
Per restaurare un’arma antica non occorrono materiali particolari; sono necessarie attrezzature specifiche (tornio, fresatrice) solo se bisogna ricostruire qualche pezzo. Bastano poche cose ma che siano di grande qualità, tutte reperibili nei magazzini che forniscono i restauratori di mobili, nei negozi di belle arti e nelle ferramenta bene attrezzate: Servono un buon olio adatto per sbloccare le viti, tela smeriglio di varia grana (da quella media alla finissima n.600), un pulitore per legno non aggressivo, una pasta sverniciante (nel caso il legno sia stato verniciato), olio paglierino, olio di lino cotto, essenza di trementina, alcol e paglietta di ferro, da quella media alla finissima, detta “barba di frate” e infine una buona colla epossidica a due componenti.
Nel corretto restauro si dovrebbero usare solo materiali coevi all’arma, quindi solo cera vergine, oli naturali, vernice a gommalacca e colla di pesce sciolta a bagnomaria; ma, nel caso della colla, c’è da tener presente che seccando diventa “fragile”, quindi non è adatta per riparare un’arma che abbiamo intenzione di utilizzare “a fuoco”: le vibrazioni farebbero riaprire le “ferite”; mentre va benissimo per un pezzo destinato a restare in rastrelliera.
Fondamentali i cacciaviti: devono essere robusti e con taglio esattamente adatto allo spacco che c’è sulla testa delle viti. Chi dispone di una molatrice può utilizzare quelli a gambo esagonale, venduti senza taglio; il
taglio lo si fa direttamente alla mola, in modo che per spessore, profondità e larghezza corrisponda esattamente allo spacco della vite (deve incastrarsi fino in fondo con leggeri colpetti di martello, in modo da fare quasi corpo unico con la testa della vite). Il gambo esagonale serve per poterci infilare una chiave inglese e fare più forza quando con una mano si gira e con l’altra si preme con decisione verso il basso. Ricordiamoci che se spaniamo il taglio sulla testa di una vite (niente di più facile se è bloccata dalla ruggine, anche se ben temprata) dovremo poi fare una “carota” al legno per poterla estrarre, e allora addio all’integrità del pezzo originale; senza contare che non è facile rifare una vite (specie da legno) identica all’originale. Un trucco quasi infallibile per averla vinta con le viti bloccate è quello di scaldarle per un certo tempo (circa mezz’ora) tenendo appoggiato sulla loro testa la punta di un saldatore a stagno. Per le viti che stringono ferro a ferro non c’è nessuna precauzione da prendere; per le altre dovremo stare attenti a che non bruci il legno, osservando di tanto in tanto che non si crei una zona scura introno alla testa della vite. Il calore, dilatando il metallo e sciogliendo eventuali grassi cementati dal tempo, ci renderà quasi sempre possibile risolvere situazioni che sembravano senza speranza.
Lo smontaggio
Prima di fare qualunque altra operazione, è necessario pulire l’arma nello stato in cui si trova, in modo da potere analizzarla meglio. Useremo semplicemente uno straccetto inumidito con alcol, acqua o liquido pulitore da restauro; da evitare assolutamente l’uso di qualunque materiale oleoso: impregnerebbe il legno impedendo poi alla colla di aderire, nel caso fosse neccessaria qualche riparazione. A questo punto spruzzeremo sulla testa di tutte le viti un po’ di liquido sbloccante, operazione che ripeteremo una volta al giorno per almeno una settimana, accompagnandola con leggerissimi colpi di martello (meglio se di rame) sulla testa delle viti, in modo da far penetrare meglio il liquido sbloccante sotto la testa e nel gambo della vite. Con un ferretto appuntito e uno a lama sottile si dovrà pulire accuratamente e fino in fondo lo spacco delle viti, asportandone tutti i residui e la ruggine, in modo che la lama del cacciavite possa lavorare al meglio.
Prima dello smontaggio è bene fare uno schizzo sommario dell’arma intera e dell’interno della piastra, numerando tutte le viti; questi riferimenti li riporteremo (magari usando un pezzo di nastro adesivo di carta) su ognuna delle parti che smonteremo, per evitare errori nel successivo rimontaggio. Bloccata solidamente l’arma dopo averla protetta con uno spesso panno di feltro (l’ideale è poter disporre di una morsa di legno, ottime quelle dei banconi da falegname) svitiamo le viti premendo molto con il cacciavite e ruotandolo lentamente, magari aiutandoci con la chiave inglese per fare più forza. Da evitare gli svitatori elettrici: non ci consentono di “sentire” né di controllare la forza torcente che stiamo facendo, con il rischio di rovinare lo spacco.
Per smontare completamente il meccanismo di scatto serve un toglimolle, attrezzo in vendita nelle armerie: è una specie di morsetta a vite che, armato completamente il cane, ci consente di stringere i due rami del mollone principale ed estrarlo. Dopo aver tolto la vite del cane si prova a sfilarlo dal “quadro” in cui è innestato, ma senza fare troppa forza; se l’operazione non ha effetto è necessario introdurre un piccolo perno (meglio se di alluminio) nel foro della vite e, tenendo in mano il cane, dare piccoli colpetti di martello sulla testa del perno finché il cane si separerà dal quadro dalla noce.
La pulizia
Separate tutte le parti metalliche dal legno, si pulisce quest’ultimo con un pulitore da restauro non aggressivo, servendosi di un pennello a setole dure e di uno straccetto. In questo modo metteremo in evidenza anche i più piccoli difetti, come le microfessurazioni.Ricordiamo che le parti interne del legno non venivano mai finite a olio o a vernice, ma lasciate “al naturale”. Eventuali incrostazioni di ruggine lasciate dal ferro sul legno vanno asportate delicatamente con un raschietto e poi con lana d’acciaio asciutta. Dentro i fori lasciati dai tarli iniettiamo con una siringa l’apposito liquido antitarlo; quasi sempre gli animaletti sono morti da anni, ma non si sa mai.
Possiamo al ferro. Se l’arma è nelle condizioni del Doppelstutzen di cui stiamo trattando, tutte le superfici vanno pazientemente raschiate (come se ci si facesse la barba) con una lama affilata (ma in acciaio non troppo duro) in modo da asportare le escrescenze di ruggine, però senza “scavare”, cosa che faremmo se, per esempio, usassimo attrezzi elettrici come spazzole metalliche rotanti (pulitrice) oppure prodotti chimici, che sciolgono molto bene la ruggine e non intaccano il metallo, ma lasciano crateri là dove hanno lavorato; mentre invece, alla fine, le superfici metalliche dovranno risultare lisce, magari macchiate di scuro dove la ruggine ha intaccato il metallo più in profondità, ma non dovranno apparire rugose, assumendo il brutto aspetto “a buccia d’arancia”.
Pulite bene le superfici con petrolio, finiamo il lavoro con tela smeriglio asciutta, senza avere fretta, con vari passaggi e usando a mano a mano tela con grana sempre più fine. Sempre per non “scavare”, non utilizzeremo mai la tela smeriglio tenendola fra le dita, ma sempre appoggiata su una superficie rigida, come una lima o un semplice blocchetto in ferro ben squadrato. È fondamentale rispettare gli spigoli originari delle parti, sia del ferro sia del legno, anche per questo non si deve mai utilizzare la tela smeriglio tenendola fra le dita. Per esempio, per “tirare” le superfici di una canna ottagonale bisogna incollare la tela su una struttura rigida (di legno o, meglio, di alluminio) lunga circa 20 cm, larga due e alta cinque, e lavorare sul pezzo bloccato in una morsa con movimenti che seguono sempre “la lunghezza” della superficie da pulire, come veniva fatto in origine: terribile vedere una canna con segni di finitura in senso trasversale.
Riparazioni
Se disponiamo di un compressore d’aria, tramite un sottile beccuccio soffieremo all’interno di tutti i fori da tarlo, cercando di fare uscire la finissima segatura che non manca quasi mai. Poi, preparata la colla mescolando con cura i due componenti, la faremo penetrare a fondo nei forellini, servendoci di un sottile filo di rame e di un asciugacapelli, che con il calore rende la colla quasi liquida e con la pressione dell’aria la spinge fino in fondo ai fori. Indurendosi, riporterà il legno all’originaria robustezza. Eventuali sbavature di colla vanno eliminate subito con un po’ di alcol, curando che i forellini non restino riempiti interamente di colla: l’ultima parte dovrà essere libera per ricevere la successiva stuccatura.
Nel caso frequente di fessurazioni, prima di incollarle, controllare che le superfici siano ben pulite, eliminando polvere, eventuali residui e soprattutto tracce di grasso. L’incollaggio avviene allargando leggermente le due parti da accostare e stendendo un leggero strato di bicomponente sulle superfici di contatto. A questo punto le due parti vanno strette fortemente con molti giri di spago affiancati. Evitare però di incollare la calciatura “a nudo”: si potrebbe di mutarne la sagoma, con il rischio che la piastra e le canne poi non entrino più correttamente nelle loro sedi. L’incollaggio va sempre fatto con le parti metalliche montate. Per evitare che il legno si incolli al ferro e lo spago al legno, si interpone un sottile foglio di cellophane (va benissimo la pellicola per uso alimentare).
Asciugata la colla (dopo almeno 24 ore) si tolgono eventuali sbavature usando con delicatezza carta vetrata e la lana di vetro, avendo cura di intaccare il meno possibile la finitura esterna originale.
Non resta che chiudere definitivamente i fori da tarlo. Lo si fa preparando un po’ di finissima segatura di legno (deve essere un po’ più chiara e della stessa essenza lignea del calcio) e impastandola con poca colla: è la cosiddetta “pasta di legno” che, con una spatolina, applicheremo su ogni forellino. La stessa pasta serve anche per otturare eventuali piccole scheggiature; mentre per eventuali parti mancanti si dovranno fare opportuni tasselli, scegliendo con cura il legno da innestare, per venatura, compattezza e colore. E in questo caso deve essere un legno “antico”, perfettamente stagionato, meglio se ricavato dalla calciatura di un fucile d’epoca andato distrutto.
La rifinitura si fa con carta vetrata fine e poi lana d’acciaio. Se qualche vite da legno non fa più presa perché la sede si è allargata, bisogna pulire bene il foro nel legno e riempirlo con pasta di legno. Dopo qualche ora, quando la colla si è un po’ indurita ma non solidificata, avviteremo la vite nel foro quasi completamente, in modo da ricreare il filetto, asportando la pasta di legno in più che fuoriesce; per evitare che la colla aderisca al filetto della vite, basta cospargerlo di cera solida. Quando la colla sarà indurita potremo avvitare la vite a fondo: sarà lei stessa a “farsi la strada” negli ultimi 5-6 millimetri di pasta di legno dura.
Finitura a spirito
Con un mordente all’alcol (o con anilina sciolta in alcol, mai all’acqua perché il legno si gonfia e “alza il pelo”) di opportuno colore in base all’essenza del legno (noce, faggio ecc.) e di tinta più tenue di quella originale, servendoci di uno straccetto imbevuto passiamo tutta la parte esterna della calciatura (mai le parti interne); l’operazione va ripetuta a distanza di alcune ore, magari insistendo in alcuni punti, finché l’intera superficie assume un colore omogeneo. La colla epossidica, tra i suoi vantaggi, ha anche quello di “prenderle” il colore, ma tende a scurirlo, per questo la pasta di legno deve essere chiara, altrimenti i punti stuccati risulteranno molto più scuri del resto della calciatura.
Non resta che la finitura. Se in origine la calciatura era finita “a spirito”, sciogliamo un po’ di gommalacca in alcol e con un tampone di cotone che non lasci peli (per esempio un batuffolo di cotone avvolto in un vecchio fazzoletto), stendiamo velocemente un leggerissimo strato di questa vernice su tutto il legno, avendo cura di lavorare nel senso della venatura (“per lungo”) e di non ripassare mai sullo stesso punto. Per render più scorrevole la gommalacca si può utilizzare qualche goccia di olio di lino crudo. L’operazione va ripetuta una volta al giorno per almeno quattro o cinque volte, finché non si ottiene il risultato voluto. Alla fine, per togliere l’”effetto caramella”, si sfrega leggermente la calciatura con finissima lana d’acciaio e si passa un velo di cera da mobili o di olio paglierino.
Finitura a olio
Se invece la finitura originale era a olio (come nel nostro caso) l’operazione da fare è molto più semplice: basta sfregare delicatamente la calciatura (sempre e solo le parti esterne) con un tampone (o a pennello) imbevuto di olio di lino cotto, un po’ diluito con essenza di trementina per farlo penetrare meglio nelle fibre. Dopo alcuni giorni, quando il legno avrà assorbito tutto l’olio, si ripeterà l’operazione. Questo finché la calciatura non “succhierà” più olio e assumerà un caldo colore opaco. L’eventuale olio in eccesso che si sarà indurito sulla superficie del legno va asportato sfregando leggermente con un po’ di paglietta. Infine si luciderà la superficie con un panno di lana: l’effetto estetico è notevole, e la finitura a olio, penetrando a fondo, oltre a impermeabilizzare ha anche il vantaggio di ridare a un legno secco e “cotto dal tempo” la sua originale elasticità, o quasi, condizione fondamentale se si vuole utilizzare l’arma a fuoco.
Da tenere presente che queste operazioni (soprattutto la verniciatura a spirito) eliminano la patina originale. Chi vuole conservarla dovrà semplicemente usare un leggero pulitore da restauro, soluzione accettabile (e corretta) se il legno risulta ancora in buone condizioni e se l’arma è destinata a finire in rastrelliera a scopo collezionistico.
Impietoso nei confronti di tutte le creature viventi, il tempo a volte passa distratto sugli oggetti inanimati: ci sono armi che hanno duecento o trecento anni e che sembra siano state fatte ieri. Tutto dipende da come sono state conservate. In certi ambienti freddi e asciutti, tarli, ossidazioni e muffe non trovano le condizioni per vivere e svilupparsi. Questo spiega perché nei saloni di alcuni castelli si vedono pistole appese ai muri che non hanno una macchia di ruggine; mentre nelle nostre confortevoli case, complici l’umidità, gli sbalzi di temperatura, il riscaldamento e la formazione di condensa, le armi vanno di tanto in tanto oliate se si vogliono evitare brutte sorprese.
In queste note parleremo del restauro che abbiamo fatto personalmente su un fucile che, a prima vista, sembrava da buttare via, o quasi. Si tratta di un’arma rarissima: il Doppelstutzen M 1795, fucile a due canne sovrapposte (di cui quella superiore rigata e la sottostante liscia) in dotazione ai tiratori scelti delle guardie confinarie dell’impero Austroungarico; in pratica è l’evoluzione del modello 1768. Le differenze sono essenzialmente funzionali, il modello più giovane (si fa per dire) ha praticamente le stesse dimensioni e il medesimo calibro di 14,8 mm, ma è un po’ meno pesante (5,38 kg invece di 5,5), cosa ottenuta rendendo meno massicce le piastre e “smagrendo” un po’ il legno, riducendo l’altezza della pala del calcio. Ma quello che fa distinguere fin dal primo sguardo i due modelli sono i cani, che nel M 1795 sono “a cuore” e non più “ a collo di cigno”, sicuramente meno eleganti ma più robusti. Così com’è più funzionale il bacinetto che accoglie la polvere dell’innesco, fatto in ottone invece che in ferro, per renderlo insensibile alla ruggine causata dai residui della combustione della polvere da sparo.
L’apparenza inganna
Un’arma di tale valore e rarità non deve mai essere trascurata, anche se ci viene offerta in pessime condizioni di conservazione. Certo, nessuno è disposto a pagare la ruggine 2000 euro al chilo, ma che cosa c’è realmente sotto la patina rossastra? È quello che si deve cercare di intuire al primo esame, non dimenticando che le brutte sorprese sono sempre in agguato e le scopriremo tutte solo quando, nel nostro piccolo laboratorio, avremo la possibilità di smontare completamente l’arma. Questo per dire che un certo margine di rischio è sempre presente quando si acquista un’arma antica “in patina”, dimenticata per secoli in qualche solaio o infilata dal trisnonno sotto la paglia di un fienile abbandonato: è proprio lì che i contadini nascondevano le armi che raccoglievano nei campi dopo che si era svolta una battaglia.
Torniamo al nostro Doppelstutzen. Dopo aver controllato che tutti gli elementi facilmente amovibili siano corretti e coevi (mirino, alzo, cani, ponticello, grilletti, calciolo ed eventuale bacchetta); l’analisi comincia dalle parti in ferro. Nel nostro caso, come si vede dalle foto, la patina di ossidazione appare uniforme, sia come spessore sia come colore; il fatto è positivo; macchie o placche più scure, tendenti al nero, significano che in quei punti la ruggine ha scavato in profondità, quindi quando puliremo la superficie finiremo con avere il metallo “a pelle di leopardo”: un effetto esteticamente pessimo, senza contare che i probabili e profondi “crateri” causati dall’ossidazione, che oltre tutto riducono la robustezza del metallo, sconsigliando in molti casi l’eventuale utilizzo a fuoco.
Infatti il restauro può essere di due tipi: semplicemente conservativo oppure anche funzionale. Se l’arma è destinata solo a finire in bacheca per arricchire una collezione, potremo accettare anche i difetti che ne penalizzano la solidità; ma se abbiamo intenzione di utilizzarla a caccia o in poligono, tutte le parti devono essere sostanzialmente “sane”, comprese quelle in legno, perché non bisogna dimenticare che i malefici tarli sono ghiotti del noce ben stagionato, e sotto i forellini che spesso punteggiano la calciatura non è raro che si celino lunghe e profonde gallerie che rendono la struttura lignea estremamente fragile, destinata ad andare in pezzi sotto gli urti del rinculo. Ma anche a questo, spesso, c’è rimedio.
Dopo aver analizzato l’esterno delle canne si passa all’interno. Esistono in commercio piccole pile fatte apposta per essere introdotte nelle anime. Avremo così la possibilità di osservare, seppure in modo approssimativo, lo stato della rigatura e la più o meno accentuata regolarità delle superfici delle canne lisce. In questa analisi è fondamentale avere una bacchetta da introdurre nelle canne; ci serve per controllare di quanto affonda. Se non riusciamo a introdurla per tutta la lunghezza della canna (basta fare un raffronto con l’esterno) significa che l’anima è otturata da qualcosa (spesso uno straccio) oppure che l’arma è ancora carica, e magari lo è da cent’anni, eventualità tutt’altro che infrequente perché un tempo c’era l’abitudine di tenere le armi ad avancarica pronte al fuoco, visto il tempo relativamente lungo necessario per caricarle. In questo caso, dato che la polvere nera è molto igroscopica, c’è la quasi certezza che l’umidità abbia causato profondi “crateri” nella camera di scoppio, pregiudicando in modo più o meno grave la robustezza dell’arma, e proprio nel punto dove al momento dello scoppio la pressione dei gas è massima.
Dopo le canne si passa alle piastre. I meccanismi, anche se con fatica, devono funzionare: scatti del cane (monta e sicura), grilletti, molla della martellina. Le eventuali scritte e i marchi, pur sotto la ruggine, devono apparire decisi se sono fatti a bulino, mentre se ottenuti per punzonatura il metallo deve “crescere” leggermente attorno ai segni; in caso contrario, e soprattutto se i marchi non sono completamente leggibili, vuol dire che le superfici sono già state “tirate”, è un chiaro segno che, magari cent’anni fa, il fucile è già stato rimesso a nuovo, ma in modo maldestro, usando forti abrasivi, se non addirittura lime e mole.
Infine il legno. Controlliamo con cura che non ne manchino parti e, soprattutto che non ci siano gravi rotture (come quella, “classica”, nel collo del calcio, che divide l’arma in due pezzi), magari riparate da vecchia data usando colla di pesce, viti e spine di legno o di ferro, poi camuffate in qualche modo con vernici. Eventuali fessurazioni non sono gravi se non manca materiale, così come i fori lasciati dai tarli, a meno che la calciatura sia veramente ridotta un “colabrodo“
Le parti in ottone non devono preoccupare, anche se sono molto scure, basta che non siano gravemente danneggiate. Come succede per tutti i metalli dolci, la patina di ossido che si forma in superficie protegge il materiale sottostante; basterà una buona lucidatura per farlo tornare come nuovo. Il vero cancro delle armi è l’ossido di ferro (ossia la ruggine) che aggredisce tutti i materiali acciaiosi: alimentato dall’ossigeno che c’è nell’aria continua a svilupparsi finché il metallo non è completamente distrutto, trasformato in polvere rossastra.
I materiali
Per restaurare un’arma antica non occorrono materiali particolari; sono necessarie attrezzature specifiche (tornio, fresatrice) solo se bisogna ricostruire qualche pezzo. Bastano poche cose ma che siano di grande qualità, tutte reperibili nei magazzini che forniscono i restauratori di mobili, nei negozi di belle arti e nelle ferramenta bene attrezzate: Servono un buon olio adatto per sbloccare le viti, tela smeriglio di varia grana (da quella media alla finissima n.600), un pulitore per legno non aggressivo, una pasta sverniciante (nel caso il legno sia stato verniciato), olio paglierino, olio di lino cotto, essenza di trementina, alcol e paglietta di ferro, da quella media alla finissima, detta “barba di frate” e infine una buona colla epossidica a due componenti.
Nel corretto restauro si dovrebbero usare solo materiali coevi all’arma, quindi solo cera vergine, oli naturali, vernice a gommalacca e colla di pesce sciolta a bagnomaria; ma, nel caso della colla, c’è da tener presente che seccando diventa “fragile”, quindi non è adatta per riparare un’arma che abbiamo intenzione di utilizzare “a fuoco”: le vibrazioni farebbero riaprire le “ferite”; mentre va benissimo per un pezzo destinato a restare in rastrelliera.
Fondamentali i cacciaviti: devono essere robusti e con taglio esattamente adatto allo spacco che c’è sulla testa delle viti. Chi dispone di una molatrice può utilizzare quelli a gambo esagonale, venduti senza taglio; il
taglio lo si fa direttamente alla mola, in modo che per spessore, profondità e larghezza corrisponda esattamente allo spacco della vite (deve incastrarsi fino in fondo con leggeri colpetti di martello, in modo da fare quasi corpo unico con la testa della vite). Il gambo esagonale serve per poterci infilare una chiave inglese e fare più forza quando con una mano si gira e con l’altra si preme con decisione verso il basso. Ricordiamoci che se spaniamo il taglio sulla testa di una vite (niente di più facile se è bloccata dalla ruggine, anche se ben temprata) dovremo poi fare una “carota” al legno per poterla estrarre, e allora addio all’integrità del pezzo originale; senza contare che non è facile rifare una vite (specie da legno) identica all’originale. Un trucco quasi infallibile per averla vinta con le viti bloccate è quello di scaldarle per un certo tempo (circa mezz’ora) tenendo appoggiato sulla loro testa la punta di un saldatore a stagno. Per le viti che stringono ferro a ferro non c’è nessuna precauzione da prendere; per le altre dovremo stare attenti a che non bruci il legno, osservando di tanto in tanto che non si crei una zona scura introno alla testa della vite. Il calore, dilatando il metallo e sciogliendo eventuali grassi cementati dal tempo, ci renderà quasi sempre possibile risolvere situazioni che sembravano senza speranza.
Lo smontaggio
Prima di fare qualunque altra operazione, è necessario pulire l’arma nello stato in cui si trova, in modo da potere analizzarla meglio. Useremo semplicemente uno straccetto inumidito con alcol, acqua o liquido pulitore da restauro; da evitare assolutamente l’uso di qualunque materiale oleoso: impregnerebbe il legno impedendo poi alla colla di aderire, nel caso fosse neccessaria qualche riparazione. A questo punto spruzzeremo sulla testa di tutte le viti un po’ di liquido sbloccante, operazione che ripeteremo una volta al giorno per almeno una settimana, accompagnandola con leggerissimi colpi di martello (meglio se di rame) sulla testa delle viti, in modo da far penetrare meglio il liquido sbloccante sotto la testa e nel gambo della vite. Con un ferretto appuntito e uno a lama sottile si dovrà pulire accuratamente e fino in fondo lo spacco delle viti, asportandone tutti i residui e la ruggine, in modo che la lama del cacciavite possa lavorare al meglio.
Prima dello smontaggio è bene fare uno schizzo sommario dell’arma intera e dell’interno della piastra, numerando tutte le viti; questi riferimenti li riporteremo (magari usando un pezzo di nastro adesivo di carta) su ognuna delle parti che smonteremo, per evitare errori nel successivo rimontaggio. Bloccata solidamente l’arma dopo averla protetta con uno spesso panno di feltro (l’ideale è poter disporre di una morsa di legno, ottime quelle dei banconi da falegname) svitiamo le viti premendo molto con il cacciavite e ruotandolo lentamente, magari aiutandoci con la chiave inglese per fare più forza. Da evitare gli svitatori elettrici: non ci consentono di “sentire” né di controllare la forza torcente che stiamo facendo, con il rischio di rovinare lo spacco.
Per smontare completamente il meccanismo di scatto serve un toglimolle, attrezzo in vendita nelle armerie: è una specie di morsetta a vite che, armato completamente il cane, ci consente di stringere i due rami del mollone principale ed estrarlo. Dopo aver tolto la vite del cane si prova a sfilarlo dal “quadro” in cui è innestato, ma senza fare troppa forza; se l’operazione non ha effetto è necessario introdurre un piccolo perno (meglio se di alluminio) nel foro della vite e, tenendo in mano il cane, dare piccoli colpetti di martello sulla testa del perno finché il cane si separerà dal quadro dalla noce.
La pulizia
Separate tutte le parti metalliche dal legno, si pulisce quest’ultimo con un pulitore da restauro non aggressivo, servendosi di un pennello a setole dure e di uno straccetto. In questo modo metteremo in evidenza anche i più piccoli difetti, come le microfessurazioni.Ricordiamo che le parti interne del legno non venivano mai finite a olio o a vernice, ma lasciate “al naturale”. Eventuali incrostazioni di ruggine lasciate dal ferro sul legno vanno asportate delicatamente con un raschietto e poi con lana d’acciaio asciutta. Dentro i fori lasciati dai tarli iniettiamo con una siringa l’apposito liquido antitarlo; quasi sempre gli animaletti sono morti da anni, ma non si sa mai.
Possiamo al ferro. Se l’arma è nelle condizioni del Doppelstutzen di cui stiamo trattando, tutte le superfici vanno pazientemente raschiate (come se ci si facesse la barba) con una lama affilata (ma in acciaio non troppo duro) in modo da asportare le escrescenze di ruggine, però senza “scavare”, cosa che faremmo se, per esempio, usassimo attrezzi elettrici come spazzole metalliche rotanti (pulitrice) oppure prodotti chimici, che sciolgono molto bene la ruggine e non intaccano il metallo, ma lasciano crateri là dove hanno lavorato; mentre invece, alla fine, le superfici metalliche dovranno risultare lisce, magari macchiate di scuro dove la ruggine ha intaccato il metallo più in profondità, ma non dovranno apparire rugose, assumendo il brutto aspetto “a buccia d’arancia”.
Pulite bene le superfici con petrolio, finiamo il lavoro con tela smeriglio asciutta, senza avere fretta, con vari passaggi e usando a mano a mano tela con grana sempre più fine. Sempre per non “scavare”, non utilizzeremo mai la tela smeriglio tenendola fra le dita, ma sempre appoggiata su una superficie rigida, come una lima o un semplice blocchetto in ferro ben squadrato. È fondamentale rispettare gli spigoli originari delle parti, sia del ferro sia del legno, anche per questo non si deve mai utilizzare la tela smeriglio tenendola fra le dita. Per esempio, per “tirare” le superfici di una canna ottagonale bisogna incollare la tela su una struttura rigida (di legno o, meglio, di alluminio) lunga circa 20 cm, larga due e alta cinque, e lavorare sul pezzo bloccato in una morsa con movimenti che seguono sempre “la lunghezza” della superficie da pulire, come veniva fatto in origine: terribile vedere una canna con segni di finitura in senso trasversale.
Riparazioni
Se disponiamo di un compressore d’aria, tramite un sottile beccuccio soffieremo all’interno di tutti i fori da tarlo, cercando di fare uscire la finissima segatura che non manca quasi mai. Poi, preparata la colla mescolando con cura i due componenti, la faremo penetrare a fondo nei forellini, servendoci di un sottile filo di rame e di un asciugacapelli, che con il calore rende la colla quasi liquida e con la pressione dell’aria la spinge fino in fondo ai fori. Indurendosi, riporterà il legno all’originaria robustezza. Eventuali sbavature di colla vanno eliminate subito con un po’ di alcol, curando che i forellini non restino riempiti interamente di colla: l’ultima parte dovrà essere libera per ricevere la successiva stuccatura.
Nel caso frequente di fessurazioni, prima di incollarle, controllare che le superfici siano ben pulite, eliminando polvere, eventuali residui e soprattutto tracce di grasso. L’incollaggio avviene allargando leggermente le due parti da accostare e stendendo un leggero strato di bicomponente sulle superfici di contatto. A questo punto le due parti vanno strette fortemente con molti giri di spago affiancati. Evitare però di incollare la calciatura “a nudo”: si potrebbe di mutarne la sagoma, con il rischio che la piastra e le canne poi non entrino più correttamente nelle loro sedi. L’incollaggio va sempre fatto con le parti metalliche montate. Per evitare che il legno si incolli al ferro e lo spago al legno, si interpone un sottile foglio di cellophane (va benissimo la pellicola per uso alimentare).
Asciugata la colla (dopo almeno 24 ore) si tolgono eventuali sbavature usando con delicatezza carta vetrata e la lana di vetro, avendo cura di intaccare il meno possibile la finitura esterna originale.
Non resta che chiudere definitivamente i fori da tarlo. Lo si fa preparando un po’ di finissima segatura di legno (deve essere un po’ più chiara e della stessa essenza lignea del calcio) e impastandola con poca colla: è la cosiddetta “pasta di legno” che, con una spatolina, applicheremo su ogni forellino. La stessa pasta serve anche per otturare eventuali piccole scheggiature; mentre per eventuali parti mancanti si dovranno fare opportuni tasselli, scegliendo con cura il legno da innestare, per venatura, compattezza e colore. E in questo caso deve essere un legno “antico”, perfettamente stagionato, meglio se ricavato dalla calciatura di un fucile d’epoca andato distrutto.
La rifinitura si fa con carta vetrata fine e poi lana d’acciaio. Se qualche vite da legno non fa più presa perché la sede si è allargata, bisogna pulire bene il foro nel legno e riempirlo con pasta di legno. Dopo qualche ora, quando la colla si è un po’ indurita ma non solidificata, avviteremo la vite nel foro quasi completamente, in modo da ricreare il filetto, asportando la pasta di legno in più che fuoriesce; per evitare che la colla aderisca al filetto della vite, basta cospargerlo di cera solida. Quando la colla sarà indurita potremo avvitare la vite a fondo: sarà lei stessa a “farsi la strada” negli ultimi 5-6 millimetri di pasta di legno dura.
Finitura a spirito
Con un mordente all’alcol (o con anilina sciolta in alcol, mai all’acqua perché il legno si gonfia e “alza il pelo”) di opportuno colore in base all’essenza del legno (noce, faggio ecc.) e di tinta più tenue di quella originale, servendoci di uno straccetto imbevuto passiamo tutta la parte esterna della calciatura (mai le parti interne); l’operazione va ripetuta a distanza di alcune ore, magari insistendo in alcuni punti, finché l’intera superficie assume un colore omogeneo. La colla epossidica, tra i suoi vantaggi, ha anche quello di “prenderle” il colore, ma tende a scurirlo, per questo la pasta di legno deve essere chiara, altrimenti i punti stuccati risulteranno molto più scuri del resto della calciatura.
Non resta che la finitura. Se in origine la calciatura era finita “a spirito”, sciogliamo un po’ di gommalacca in alcol e con un tampone di cotone che non lasci peli (per esempio un batuffolo di cotone avvolto in un vecchio fazzoletto), stendiamo velocemente un leggerissimo strato di questa vernice su tutto il legno, avendo cura di lavorare nel senso della venatura (“per lungo”) e di non ripassare mai sullo stesso punto. Per render più scorrevole la gommalacca si può utilizzare qualche goccia di olio di lino crudo. L’operazione va ripetuta una volta al giorno per almeno quattro o cinque volte, finché non si ottiene il risultato voluto. Alla fine, per togliere l’”effetto caramella”, si sfrega leggermente la calciatura con finissima lana d’acciaio e si passa un velo di cera da mobili o di olio paglierino.
Finitura a olio
Se invece la finitura originale era a olio (come nel nostro caso) l’operazione da fare è molto più semplice: basta sfregare delicatamente la calciatura (sempre e solo le parti esterne) con un tampone (o a pennello) imbevuto di olio di lino cotto, un po’ diluito con essenza di trementina per farlo penetrare meglio nelle fibre. Dopo alcuni giorni, quando il legno avrà assorbito tutto l’olio, si ripeterà l’operazione. Questo finché la calciatura non “succhierà” più olio e assumerà un caldo colore opaco. L’eventuale olio in eccesso che si sarà indurito sulla superficie del legno va asportato sfregando leggermente con un po’ di paglietta. Infine si luciderà la superficie con un panno di lana: l’effetto estetico è notevole, e la finitura a olio, penetrando a fondo, oltre a impermeabilizzare ha anche il vantaggio di ridare a un legno secco e “cotto dal tempo” la sua originale elasticità, o quasi, condizione fondamentale se si vuole utilizzare l’arma a fuoco.
Da tenere presente che queste operazioni (soprattutto la verniciatura a spirito) eliminano la patina originale. Chi vuole conservarla dovrà semplicemente usare un leggero pulitore da restauro, soluzione accettabile (e corretta) se il legno risulta ancora in buone condizioni e se l’arma è destinata a finire in rastrelliera a scopo collezionistico.
A causa della patina del tempo, quasi non si vede la differenza tra il legno di noce e il ferro; si fa fatica persino a distinguere l’ottone con cui è realizzato il bacinetto. Ma si intuisce che l’arma è ancora in buono stato: la piastra sposa bene la sua sede nel legno, tutte le parti sono originali, non danneggiate e non manca nulla, salvo una piccola scheggia di legno davanti alla piastra, sopra la molla della martellina. L’arma, come si vede a operazione finita, meritava un buon restauro.
Anche il calciolo in ottone si confondeva con il legno, e una famiglia di tarli ha banchettato creando un profondo cratere. Gli spacchi delle viti, otturati dalla ruggine e da secolari residui, vanno puliti accuratamente prima di cercare di svitarle. Il risultato finito rende l’arma irriconoscibile, anche grazie all’olio di lino che ha nutrito in profondità il legno ridandole vita
Sotto la patina rugginosa della canna si intravedono delle scritte: sono la sigla di chi ha prodotto l’arma e il numero di reparto a cui era assegnata. Soprattutto in punti come questi, la pulizia dell’ossidazione va fatta con la massima delicatezza (mai usare spazzole metalliche elettriche o lime) cercando di asportare meno materiale possibile per non danneggiare i marchi. Anche in questo caso si è resa necessaria una piccola stuccatura del legno alla fine del codolo della canna, praticamente invisibile a lavoro finito. Gli spacchi delle viti, un po’ danneggiati, hanno richiesto qualche ritocco a colpi di scalpelletto non affilato. Leggere ammaccature sul calcio, se la fibra non è spezzata (come in casi di taglio) si fanno rinvenire (prima di trattare il legno con oli, cere o vernici) usando una pezzuola bagnata, che va appoggiata sulla parte e scaldata con un ferro da stiro o un grosso saldatore da stagno; operazione da ripetere finché non si otterrà il risultato voluto.
Nel restauro di quest’arma, l’unico elemento che ha richiesto un rifacimento è la briglia della noce della piastra destra: rotta in corrispondenza del perno che, diventando quadro all’altra estremità, serve per fissare esternamente il cane. Per ricostruire il pezzo occorre un tornio con mandrino a ganasce indipendenti. La finitura (evidenti segni di lima e loro inclinazione) dovrà essere il più possibile simile a quella del pezzo originale, poi l’acciaio dovrà essere temprato, fatto rinvenire e lucidato a spazzola. Mentre per riprodurre il numero di riferimento del pezzo (nel nostro caso XIIII) che l’armaiolo incideva per non sbagliarsi nel rimontaggio finale delle varie parti dei fucili che aveva in lavorazione, basta un piccolo scalpello opportunamente dimensionato e affilato.
La superficie su cui poggiano le culatte delle canne risultava fortemente indebolita da profonde fessurazioni, e la parte interna del canale della vite passante era mancante, consunta dal tempo e dal cattivo uso. Una profonda ma delicata pulizia (anche all’interno delle fenditure per togliere muffe e residui di ruggine) e un intervento con colla bicomponente e pasta di legno ha riportato questa fondamentale parte della calciatura alla sua originaria solidità. Per far sì che le parti in legno aderiscano bene, dopo aver spalmato la colla su tutte le superfici bisogna legarle strettamente con molti giri di spago; nei casi più difficili è necessario servirsi di una morsa e di blocchetti in legno opportunamente sagomati (da interporre tra le ganasce della morsa e le parti da serrare) per stringere bene le parti senza danneggiare gli spigoli della calciatura.
Nella sede della piastra destra, una profonda fenditura longitudinale indeboliva fortemente il calcio: sparando con un’arma in queste condizioni si rischia di trovarsi con il fucile rotto in due pezzi. Occorre far penetrare profondamente la colla servendosi di una sottile spatole e dell’aria calda di un asciugacapelli che, scaldando sia il legno sia la colla, permette al collante di arrivare fin dove c’è uno spiraglio nelle fibre. Mettendo poi in morsa il pezzo, la colla in eccedenza uscirà naturalmente e andrà eliminata subito con un po’ di alcol. Se la lasciamo indurire, toglierla diventerà un’impresa. Se il lavoro è fatto bene e se, come nel nostro caso, non mancano parti di legno, la riparazione sarà quasi invisibile e, soprattutto, il legno risulterà più robusto che in origine: nel punto incollato non si romperà mai più.
La superficie su cui poggiano le culatte delle canne risultava fortemente indebolita da profonde fessurazioni, e la parte interna del canale della vite passante era mancante, consunta dal tempo e dal cattivo uso. Una profonda ma delicata pulizia (anche all’interno delle fenditure per togliere muffe e residui di ruggine) e un intervento con colla bicomponente e pasta di legno ha riportato questa fondamentale parte della calciatura alla sua originaria solidità. Per far sì che le parti in legno aderiscano bene, dopo aver spalmato la colla su tutte le superfici bisogna legarle strettamente con molti giri di spago; nei casi più difficili è necessario servirsi di una morsa e di blocchetti in legno opportunamente sagomati (da interporre tra le ganasce della morsa e le parti da serrare) per stringere bene le parti senza danneggiare gli spigoli della calciatura.
Nella sede della piastra destra, una profonda fenditura longitudinale indeboliva fortemente il calcio: sparando con un’arma in queste condizioni si rischia di trovarsi con il fucile rotto in due pezzi. Occorre far penetrare profondamente la colla servendosi di una sottile spatole e dell’aria calda di un asciugacapelli che, scaldando sia il legno sia la colla, permette al collante di arrivare fin dove c’è uno spiraglio nelle fibre. Mettendo poi in morsa il pezzo, la colla in eccedenza uscirà naturalmente e andrà eliminata subito con un po’ di alcol. Se la lasciamo indurire, toglierla diventerà un’impresa. Se il lavoro è fatto bene e se, come nel nostro caso, non mancano parti di legno, la riparazione sarà quasi invisibile e, soprattutto, il legno risulterà più robusto che in origine: nel punto incollato non si romperà mai più.
Punto delicatissimo dei Doppelstutzen è la sottile membrana in legno che separa la canna superiore da quella inferiore. Quasi sempre in quest’area troveremo una fenditura. L’incollaggio è un’operazione delicata e il pezzo va incollato e stretto con dei morsetti tenendo le canne (pulite dalla ruggine) nelle loro sedi; altrimenti si rischia di modificare la sagoma della
In alto, la canna superiore al termine del lavoro di pulizia; sotto, quella inferiore nello stato in cui ce l’ha consegnata il tempo. Le antiche scritte sono riapparse in modo chiaro e la finitura a tela smeriglio (effetto satinato) corrisponde quella che veniva fatta all’epoca sulle armi militari, anche dagli stessi soldati dopo una marcia sotto la pioggia: bastava pestare finemente un mattone e impastare la polvere con un po’ di olio (in genere olio di oliva in cui veniva immerso piombo fuso per eliminarne l’acidità), si otteneva così una efficace pasta abrasiva, che nello stesso tempo toglieva dal ferro non brunito le macchie di ruggine fresca e lubrificava il metallo. Fondamentale “rispettare” gli spigoli delle canne ottagonali, quindi non si deve mai usare la tela sfregandola con le dita (si finisce per arrotondare gli spigoli) ma tenendola sempre ben appoggiata (o ,meglio ancora, incollata) su una superficie liscia e dura, come per esempio un profilato di alluminio o una lima, avendo cura di operare sempre nel senso della lunghezza della canna.
Vista della piastra sinistra a restauro completato; rispetto a quella destra si nota come il bacinetto sia più basso, infatti il polverino (polvere nera fine) che è destinato a contenere deve incendiare la carica della canna inferiore. Bello il contrasto tra legno finito a olio, ferro satinato e ottone lucidato, che hanno ripreso i loro colori originali (o quasi) dopo duecento anni. Con questo intervento conservativo-funzionale l’arma è tornata perfettamente in grado di riprendere a sparare, come in realtà ha fatto.
La piastra destra al termine dal restauro: sull’acciaio sono rimaste macchioline più scure dove la ruggine ha aggredito di più il ferro, ma non una superficie “a buccia d’arancia”; segno che sotto la superficiale patina di ruggine il metallo era sostanzialmente sano. Cosa che non succede se la patina, invece di essere di un rosso uniforme, presenta delle placche più scure o delle macchie nerastre; in quei punti il metallo risulterà profondamente corroso e, nei casi molto gravi, sarà necessario intervenire riportando del metallo con piccoli punti di saldatura a ferro, ossiacetilenica: è un lavoro delicatissimo, da grandi professionisti del
I materiali da utilizzare nel restauro sono comuni e poco costosi: tela smeriglio con grana di varia grossezza, lana d’acciaio, pasta per lucidare l’ottone, ottimi cacciaviti senza lama e a gambo esagonale: il taglio viene fatto con precisione alla mola secondo necessità, in base allo spacco sulla testa delle viti; l’esagono serve per fare maggiore forza torcente aiutandosi con una chiave inglese. Mai usare attrezzature elettriche perché non consentono di dosare bene lo sforzo.