- Disegnare in punta di acciaio
- Articolo di Roberto Lanzone
Una semplice barretta di acciaio appuntito e tanta abilità. Questi i ferri del mestiere dell’incisore su ferro, depositario di un’arte la cui purezza si va lentamente perdendo, ma che nei secoli scorsi era tenuta in alta considerazione.
Sulle armi lunghe di attuale produzione, anche di prezzo abbastanza elevato, è frequente vedere delle incisioni che in teoria dovrebbero arricchire l’arma, impreziosirla, caratterizzarla come un “pezzo raffinato”, e che invece la mortificano. Parliamo di quelle incisioni fatte a pantografo, o con raggio laser, oppure addirittura rullate, e persino stampate a pressione. Ne vengono fuori figure e disegni rozzi, mal definiti, che proprio nulla hanno di artistico, e nemmeno di attraente, tanto che c’è da stupirsi che queste armi trovino chi sia disposto a pagarle: una bascula finita “in bianco” è mille volte preferibile a una "abbellita" da qualche “scarabocchio” che il produttore chiama incisione, e che spesso (ingannando un occhio inesperto) serve anche a mascherare i piccoli difetti di lavorazione, l’approssimazione degli accoppiamenti, la scadente incassatura.
Nelle armi dell’Ottocento e del primo Novecento questo non succede quasi mai, se non altro perché ancora non esistevano le attuali tecniche “decorative”, pur se il pantografo l’aveva già inventato Leonardo da Vinci. In quegli anni c’era il gusto del bello, delle cose fatte bene, e si notava anche negli oggetti più semplici. Quindi le incisioni erano sempre fatte a mano, più o meno bene, ma rigorosamente a mano; solo le scritte erano spesso rullate (su armi militari e civili di produzione in serie) o punzonate (specie nel caso di marchi e dei numeri di matricola).
Tre erano le tecniche dell'incisione: all’acquaforte, a bulino e a punta secca. L’acquaforte era essenzialmente acido nitrico, nel quale veniva immerso il pezzo dopo che con una speciale vernice protettiva era stato tracciato (a mano) il disegno che si voleva ottenere. L’acido intaccava il metallo, ma solo nelle parti non protette dalla vernice. Alla fine del processo, il disegno appariva chiaramente in altorilievo (o viceversa) e poi veniva "ripreso" a bulino per dargli la giusta "freschezza".
Questa era una tecnica usata quasi essenzialmente sulle armi bianche, mentre per quelle da fuoco si preferiva usare il bulino: una semplice asticella di acciaio molto duro, al cui punta, affilatissima e di svariata foggia, serve per asportare piccolissime parti di metallo. Usati ancora oggi per incidere le armi fini, di bulini ne esistono di molti tipi: per tracciare linee dritte o curve, per tratteggiare fondi con sottilissime righe o piccolissimi punti, formando così i chiaroscuri. Vengono utilizzati semplicemente tenendoli nel palmo della mano (hanno una piccola impugnatura “a cipolla”) premendo con le dita e spingendo con il polso; oppure si usano a mo’ di scalpello (in questo caso si parla di punta secca, e non c'è l'impugnatura a cipolla) dando calibrati colpetti con un particolare martelletto in ferro, detto appunto “da incisore”.
È facile immaginare quanta abilità sia necessaria per tracciare un disegno su un pezzo di acciaio: gli errori non sono ammessi, se si sbaglia non si può usare la gomma come si farebbe in un disegno a matita; il metallo asportato non si può rimettere. È un’arte che richiede predisposizione naturale per il disegno, buona scuola e tanti anni di pratica. Nell’Ottocento, quando si andava “a bottega” già all'età di 12 o 13 anni, senza ricevere in pagamento nemmeno un centesimo pur di imparare un mestiere (a volte addirittura era il padre del ragazzo che pagava per "il disturbo"), si cominciava a scoprire i segreti dell’arte dell’incisione sul metallo insieme alla propria predisposizione: chi non era portato era invitato a cambiare strada.
Arrivati a vent’anni, quando il polso era robusto, la mano ferma e la vista perfetta (comunque, nel lavoro ci si aiutava con una lente di ingrandimento) si aveva acquisito già una buona esperienza, e a 25 si poteva diventare “maestri” se si aveva stoffa e buona vena artistica, e se si era riusciti a diventare padroni delle tecniche più raffinate, come l’agemina, ossia l’intarsio dei metalli con fili di metalli preziosi (platino, oro, argento) che si battono a freddo facendoli incastrare in solchi o incavi fatti precedentemente a bulino con sottosquadra; formando superfici più o meno ampie, che a loro volta possono essere incise: nascono così quei filetti e quegli animali in oro che spiccano splendidamente su una superficie brunita o tartarugata.
Ovviamente, tra gli apprendisti e i maestri c’era un abisso in fatto di risultato finale, ma in mezzo a queste due categorie si contavano tanti validi artigiani, che forse non sarebbero mai diventati fini incisori ma che andavano benissimo (dato il basso costo della loro opera) per incidere armi di mediocre fattura. Questo per dire che non si vedrà mai un fucile antico di alta qualità decorato con incisioni mediocri; mentre può succedere, anche se raramente, di trovare un’arma poco raffinata ma con delle buone incisioni (buone, mai eccellenti).
L’appassionato di armi antiche, con l’attenta osservazione di armi fini (in musei, collezioni, fiere, negozi) e con una buona lente educherà presto l’occhio a valutare i tratti decisi, mai interrotti e ripresi malamente (specie nelle sottili cornici delle piastre); le curve perfette, l’armonia delle volute che si intrecciano tra loro con estrema naturalezza, la precisione del disegno, la freschezza del tratto, l’alternanza di leggerezze e profondità che l’artista ha saputo tracciare nel ferro con una semplice punta d’acciaio, come se avesse usato inchiostro e una morbida penna d’oca. Si imparerà così a separare la farina dalla crusca, come fecero nel Cinquecento gli Accademici della Crusca, quei puristi che stilarono il primo vocabolario della lingua italiana. Solo così le armi malamente incise resteranno dove si meritano: nelle rastrelliere di chi cerca di spacciarle per opere di pregio.
Sulle armi lunghe di attuale produzione, anche di prezzo abbastanza elevato, è frequente vedere delle incisioni che in teoria dovrebbero arricchire l’arma, impreziosirla, caratterizzarla come un “pezzo raffinato”, e che invece la mortificano. Parliamo di quelle incisioni fatte a pantografo, o con raggio laser, oppure addirittura rullate, e persino stampate a pressione. Ne vengono fuori figure e disegni rozzi, mal definiti, che proprio nulla hanno di artistico, e nemmeno di attraente, tanto che c’è da stupirsi che queste armi trovino chi sia disposto a pagarle: una bascula finita “in bianco” è mille volte preferibile a una "abbellita" da qualche “scarabocchio” che il produttore chiama incisione, e che spesso (ingannando un occhio inesperto) serve anche a mascherare i piccoli difetti di lavorazione, l’approssimazione degli accoppiamenti, la scadente incassatura.
Nelle armi dell’Ottocento e del primo Novecento questo non succede quasi mai, se non altro perché ancora non esistevano le attuali tecniche “decorative”, pur se il pantografo l’aveva già inventato Leonardo da Vinci. In quegli anni c’era il gusto del bello, delle cose fatte bene, e si notava anche negli oggetti più semplici. Quindi le incisioni erano sempre fatte a mano, più o meno bene, ma rigorosamente a mano; solo le scritte erano spesso rullate (su armi militari e civili di produzione in serie) o punzonate (specie nel caso di marchi e dei numeri di matricola).
Tre erano le tecniche dell'incisione: all’acquaforte, a bulino e a punta secca. L’acquaforte era essenzialmente acido nitrico, nel quale veniva immerso il pezzo dopo che con una speciale vernice protettiva era stato tracciato (a mano) il disegno che si voleva ottenere. L’acido intaccava il metallo, ma solo nelle parti non protette dalla vernice. Alla fine del processo, il disegno appariva chiaramente in altorilievo (o viceversa) e poi veniva "ripreso" a bulino per dargli la giusta "freschezza".
Questa era una tecnica usata quasi essenzialmente sulle armi bianche, mentre per quelle da fuoco si preferiva usare il bulino: una semplice asticella di acciaio molto duro, al cui punta, affilatissima e di svariata foggia, serve per asportare piccolissime parti di metallo. Usati ancora oggi per incidere le armi fini, di bulini ne esistono di molti tipi: per tracciare linee dritte o curve, per tratteggiare fondi con sottilissime righe o piccolissimi punti, formando così i chiaroscuri. Vengono utilizzati semplicemente tenendoli nel palmo della mano (hanno una piccola impugnatura “a cipolla”) premendo con le dita e spingendo con il polso; oppure si usano a mo’ di scalpello (in questo caso si parla di punta secca, e non c'è l'impugnatura a cipolla) dando calibrati colpetti con un particolare martelletto in ferro, detto appunto “da incisore”.
È facile immaginare quanta abilità sia necessaria per tracciare un disegno su un pezzo di acciaio: gli errori non sono ammessi, se si sbaglia non si può usare la gomma come si farebbe in un disegno a matita; il metallo asportato non si può rimettere. È un’arte che richiede predisposizione naturale per il disegno, buona scuola e tanti anni di pratica. Nell’Ottocento, quando si andava “a bottega” già all'età di 12 o 13 anni, senza ricevere in pagamento nemmeno un centesimo pur di imparare un mestiere (a volte addirittura era il padre del ragazzo che pagava per "il disturbo"), si cominciava a scoprire i segreti dell’arte dell’incisione sul metallo insieme alla propria predisposizione: chi non era portato era invitato a cambiare strada.
Arrivati a vent’anni, quando il polso era robusto, la mano ferma e la vista perfetta (comunque, nel lavoro ci si aiutava con una lente di ingrandimento) si aveva acquisito già una buona esperienza, e a 25 si poteva diventare “maestri” se si aveva stoffa e buona vena artistica, e se si era riusciti a diventare padroni delle tecniche più raffinate, come l’agemina, ossia l’intarsio dei metalli con fili di metalli preziosi (platino, oro, argento) che si battono a freddo facendoli incastrare in solchi o incavi fatti precedentemente a bulino con sottosquadra; formando superfici più o meno ampie, che a loro volta possono essere incise: nascono così quei filetti e quegli animali in oro che spiccano splendidamente su una superficie brunita o tartarugata.
Ovviamente, tra gli apprendisti e i maestri c’era un abisso in fatto di risultato finale, ma in mezzo a queste due categorie si contavano tanti validi artigiani, che forse non sarebbero mai diventati fini incisori ma che andavano benissimo (dato il basso costo della loro opera) per incidere armi di mediocre fattura. Questo per dire che non si vedrà mai un fucile antico di alta qualità decorato con incisioni mediocri; mentre può succedere, anche se raramente, di trovare un’arma poco raffinata ma con delle buone incisioni (buone, mai eccellenti).
L’appassionato di armi antiche, con l’attenta osservazione di armi fini (in musei, collezioni, fiere, negozi) e con una buona lente educherà presto l’occhio a valutare i tratti decisi, mai interrotti e ripresi malamente (specie nelle sottili cornici delle piastre); le curve perfette, l’armonia delle volute che si intrecciano tra loro con estrema naturalezza, la precisione del disegno, la freschezza del tratto, l’alternanza di leggerezze e profondità che l’artista ha saputo tracciare nel ferro con una semplice punta d’acciaio, come se avesse usato inchiostro e una morbida penna d’oca. Si imparerà così a separare la farina dalla crusca, come fecero nel Cinquecento gli Accademici della Crusca, quei puristi che stilarono il primo vocabolario della lingua italiana. Solo così le armi malamente incise resteranno dove si meritano: nelle rastrelliere di chi cerca di spacciarle per opere di pregio.
Piastra di una carabina da caccia tedesca (1840 circa), con luogo d’origine ageminato in oro (“in Münhen”, Monaco di Baviera). L’incisione profonda (tipica delle armi di scuola germanica) è perfettamente tracciata e ben ombreggiata; le volute sono proporzionate, il doppio filo di cornice (largo e fine) segue perfettamente il profilo della piastra: un lavoro di alta qualità.
Piastra di fucile da caccia firmato William Hole, Bristol (1835 circa). Il tratto è profondo, tipico del primo Ottocento inglese: caratteristica delle armi fini inglesi anche la elaborata cornice, in questo caso a piccole foglie. I lampi attorno alla vite della piastra sono un retaggio delle armi a pietra e simulano le scintille sprigionate dalla martellina.
Ecco un’incisione di qualità scadente, pur se fatta su un fucile inglese firmato (Richards, 1850 circa, uno dei tanti, più o meno famosi, con questo nome). Basta osservare lo scarso parallelismo e il tratto incerto e “ondulatorio” della cornice (che, fra l'altro, si incrocia ai vertici: cosa che non deve mai succedere) per stabilire che si tratta di una piastra dozzinale. Stessa, scarsa, qualità per le volute, con ombreggiature puerili. Persino la scritta, in cui gli incisori inglesi erano maestri, qui si presenta incerta e con lettere male allineate. Per non parlare della misera stella sul portaluminello. Un lavoro da apprendista incisore per un’arma di basso prezzo.
Piastra di pistola firmata da Henri Le Page (circa 1830). Pochi stilemi ma tracciati con sapienza e sicurezza: la firma sembra fatta a penna stilografica, con tratti spessi e sottili, ottimamente proporzionati. La scritta che precede il nome "F.ni par", sta per "Fourni par", ossia arma fornita da…, a testimonianza della correttezza dei grandi armaioli che, data la notevole richiesta delle loro realizzazioni, non potevano eseguire interamente tutte le armi, però le controllavano con grande scrupolo, le rifinivano e le fornivano al committente garantendo la stessa qualità di quelle interamente realizzate dalle loro mani (che in genere erano poche e riservate a nobili, principi, re o imperatori).
Fucile di gran pregio, da tiro a segno a lunga distanza, (match rifle), firmato George Gibbs (1880 circa) inciso con classiche volute all’inglese, ma di una perfezione che lascia ammirati: il disegno sembra quasi “uscire” dall’acciaio; la cornice a spirale che contorna il grano di platino nel portaluminello è impeccabile, e lo stesso vale per quella della piastra, "en suite" con le altre, e per la impeccabile rosetta sulla testa della vite del cane.
Profonda incisione a punta secca, quasi un cesello, sulla canna e la codetta di un fucile austriaco (Perger in Gratz, circa 1850). Il cigno che uccide la serpe e la civetta sono simboli scaramantici; in araldica, la civetta rappresenta anche la vittoria.